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Le baruffe chiozzotte - 1992-93

autore: Carlo Goldoni
regia: Giorgio Strehler
scene: Luciano Damiani
costumi: Luciano Damiani
musiche: Fiorenzo Carpi
    


Appunti di regia Baruffe chiozzotte 1992

Note di regia pubblicate nel programma di sala per Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-1993 (tratte dagli appunti di Strehler scritti per l'allestimento dello spettacolo stagione 1964-65)

Baruffe d’amore

 

Rileggendo le note delle Baruffe mi accorgo che esse non seguono tutto un cammino di conoscenza, un lavoro teatrale di verifiche, di annotazioni, che è stato fatto in un mese, nella casa di Venezia, da solo e con l’aiuto fraterno di quel piccolo mondo di compagni, solidale, attorno al mio affannoso cercare la realtà delle Baruffe. Manca il lavoro sui personaggi, sugli attori, appunti di “cose”, comprensioni di alcune verità psicologiche dei personaggi, soprattutto alcuni rapporti, alle basi sociali. E mi accorgo che mano a mano questa conoscenza delle Baruffe corre sempre di più verso un mondo poetico, verso un tentativo di poesia – o di poetizzare? – il testo di Goldoni.

Nel riflettere ai pericoli di ciò, al voler cioè caricare un testo di poesia che non può sopportare, mi nasce questa sera una certezza, come una conquista: che l’unica maniera per affrontare un testo “comico” è quella di affrontarlo con estrema serietà, non pensandolo affatto come “avvenimento comico”. Dimenticarsi che tale scena o tal personaggio possono essere “ridicoli”, cercare intorno tutto quello che può esserci di vita, di cose serie, poetiche, vere, umane, senza occuparsi mai della comicità possibile degli eventi o delle parole. La dimensione comica non è mai un punto di partenza. Qualora esista è un risultato finale, un qualcosa che rientra nelle possibilità di quella vita che si inventa sul palcoscenico, in maggiore o minore misura, a seconda dei casi. Come un fatto fortuito, senza calcolo.

Se le Baruffe è un testo comico, io dico che è anche un testo comico.

Certamente non è un testo “spensierato”, tutto gioco liberato, piacevolezza del suono etc… e certamente il suo mondo, sostanzialmente fatto di durezze e fatiche e povere cose, non è visto in una dimensione tragica. Ma tra questi due poli, quante possibilità intermedie, quanta possibile verità poetica…E quanta difficoltà a cogliere l’equilibrio di ogni scena, di ogni gesto o parola!

In fondo, sul palcoscenico basta lasciarsi guidare con modestia, giorno per giorno, dalle parole che si muovono, per ritrovarsi la verità di un testo fra le mani, anche se nel gioco della fantasia, nella ricerca dei motivi, di tutti i motivi, sei andato troppo avanti o sei rimasto troppo indietro, per timidezza, timore, rispetto o altro – i mille fattori che fanno parte del gioco umano dell’interpretazione.

 

 

 

Per ora un disegno umano e poetico delle Baruffe esiste, intorno, e lo lascio così, non troppo a fondo, più come sensazione che come segno fissato. Il resto verrà da sé – nulla mai viene da sé – verrà dal lavoro del teatro se sarà fatto come deve essere fatto.

Il mio unico vero timore è tutto qui, in fondo, sul come sarà fatto, da me e dagli altri insieme. Se saremo capaci di lavorare giusto, in accordo, con quello che il testo ci indicherà, se sapremo leggere giusto, insieme, sul palcoscenico, in mezzo ai mille agguati del tempo, dei caratteri, dei visi, dei vizi di ognuno di noi.

 

 

 

Baruffe, commedia di poveri. I ricchi sono assenti. I potenti lo stesso. Il Coadiutore aggiunto è l’unica presenza del potere aristocratico-democratico. Gli “altri” non esistono. Il Coadiutore è un ragazzo, appena uscito dall’adolescenza. È un borghese non molto ricco. Lavora per “imparare”.

Dividere la commedia in tre parti nette: i pescatori tra loro – i pescatori dal potere (cancelleria criminale) – il potere dai pescatori.

I quadri della cancelleria fanno corpo drammatico a sé.

 L’atteggiamento del popolo nei rapporti col potere? Diffidenza, timore, attenzione, furbizia. I popolani non si tradiscono tra loro, nonostante tutto.

 

Realtà probabile: i fatti delle baruffe sono immaginari come tali. Non lo sono come realtà possibile, come somma di accenti di eventi reali, sparsi in un’esperienza umana. I personaggi non sono ricalcati dal vero. Sono inventati sul vero. Sono reinventati su dati dal vero ed agiscono autonomi dal ricordo, eppure nello stesso tempo sono tutti legati al ricordo.

Analisi sociale della commedia.

Vederla tutta e solo, per esercizio dialettico, come rapporto storico, rapporto di forze sociali, di condizioni di classe. Delineare un profilo dei caratteri come tipi sociali, anche forzandoli, ovviamente.

Analisi puramente tipologica – caratteri, abitudini, gesti, dal puro punto di vista naturalistico; storia minuta di uomini e avvenimenti, nei particolari, nelle caratteristiche psicofisiche.

 

Analisi della trama, dal puro punto di vista del racconto drammatico – succedersi di atti e fatti –, descrivendo anche ciò che è supposto, inventando una storia logica e concatenata per ogni attitudine.

Analisi puramente teatrale delle Baruffe, cioè dinamico-ritmica, aperture di scene, chiusure, ritmi, trovate teatrali, progressioni, allargamenti, atmosfere (se ci sono), situazioni teatrali da sfruttare come fatto teatrale. Esempio: i finali d’atto esistono, come possono essere di effetto? Dove si ride?

 

 Analisi della sintassi delle Baruffe, del ritmo e della cadenza; della rapidità della dizione. Il tono. Il “modo” di esprimere il dialetto. Ricordare certe liti venete, gridate con tono calmo e musicale; apparentemente senza nervi e convinzione ma non per questo meno forti, meno tragiche.

Liti totalmente rilassate ma non dolci. La mollezza è nel linguaggio, in una specie di attitudine orientale (il caligo, lo scirocco), non nei sentimenti.

 

Confrontare le analisi e legarle l’una all’altra – non esiste mai il puro tipo logico, il puro sociale, il puro drammatico, il puro raccontare. Un testo drammatico come la vita è tutto questo assieme, tutti questi accenti sempre coesistenti e presenti e interdipendenti, accenti spostati di volta in volta sull’uno o l’altro aspetto, con reciproche illuminazioni ed influenze.

Complessità del testo drammatico come un qualsiasi gesto umano che implica sempre in sé tutto il possibile, tutto quello che c’è.

L’eternità è chiusa nel battito del ciglio dell’uomo.

 

Uno dei problemi più importanti per le Baruffe è quello di riuscire a rendere il movimento della commedia come un gioco musicale, una danza immemore e purtuttavia a dare quel ritmo, quel giocare ai margini della musica che è una delle grandezze di Goldoni. Tanto che proprio questa maniera è diventata tutto e solo Goldoni.

Ma si è dimenticato l’altro rovescio della medaglia: la realtà, il tono quotidiano, il dimesso, il vero, il sottinteso, il serio e il grave, la critica di costume.

I critici goldoniani faticheranno a trovare in tutto Goldoni un personaggio popolare veramente disgustoso (ci sono alcuni “degenerati” Arlecchini che vanno all’osteria e con puttane, come nella Buona moglie, un Brighella ruffiano, etc. – ma è poca roba, più maschere che altro). Ma quanti personaggi aristocratici pazzi, sadici, assurdi, troveranno ad ogni pagina!

Tempo – stagione – ore delle Baruffe

Le Baruffe si aprono con una domanda sul tempo atmosferico. È un “boccon de sirocco”. Nel dialetto chiozzotto parrebbe un vento abbastanza forte se “i nostri omeni, i gh’ha el vento in poppe”.

Poi non vi è più alcuna indicazione di questo tipo nel testo.

Le Baruffe si compiono in quell’atmosfera senza tempo, né stagione, né ora, che caratterizza le più diverse “interpretazioni” sceniche dell’opera di Goldoni, in genere sempre un’estate o una primavera, calda, immobile, senz’aria, una specie di stagione teatrale astratta. Un tempo senza tempo: né mattina né sera, una luce piena che è solo luce di teatro, solo talvolta il testo indica chiaramente che è notte.

È necessaria questa atemporalità, questa non-stagione, non-ora, per l’opera di Goldoni?

È questo il segno del suo non-naturalismo. Probabilmente l’indizio di una voluta atemporalità di molta opera di Goldoni è diventata nelle interpretazioni successive solo una “comodità” e quindi un fatto definitivo, “necessario”.

Pure, questa atemporalità non pare suffragata da un’osservazione attenta. Senza cercare di calare Goldoni in un’atmosfera ed in un tempo stagionale sempre rigorosamente definito, cioè di farlo dipendere da elementi estranei all’azione ed alla parola, attraverso influenze reciproche (vedi Cecov per primo), purtuttavia togliere la possibilità a Goldoni di una diversa accentuazione dei tempi, a seconda della necessità “logica” e drammatica delle situazioni, è certo un errore di lettura del testo e spesso un rinunciare alla verità plastica dei movimenti della natura, delle cose, degli anni, intorno ai personaggi ed alle vicende goldoniane.

L’esempio delle Villeggiature è probante. Ma anche qui, pur essendo il tema temporale dominante nelle tre commedie – una si svolge prima delle vacanze, una durante, una dopo – il testo non si spinge oltre a vaghe indicazioni. Ma non per questo esime l’interprete dal cercare di capire la necessità poetica, prima ancora che logica, di far svolgere una determinata azione ad un’ora piuttosto che ad un’altra e, nella stagione determinata, in giornate diverse.

Così la passeggiata romantica è tipica del crepuscolo. È logicamente situata al crepuscolo, perché così in genere gli uomini-villeggianti fanno, e perché poeticamente pare cadenzata sul finire del giorno, verso la malinconia della sera e la promessa dei giochi e dei divertimenti serali… Altrove come si comporta Goldoni? Con quell’estrema discrezione, con quel tanto di enigmatico che ogni grande autore realistico pone sempre nelle indicazioni didascaliche del suo lavoro.

Cecov è parco di didascalie, come di descrizioni di personaggi, di indicazioni extratestuali. Lascia desumere (e molto, ad un’attenta lettura, ad una lettura in profondità) il comportamento, le caratteristiche fisiche e temporali, di abito e di carattere e ovviamente anche tonali, le età, il passato, gli stati d’animo, dalle parole dette dai personaggi.

Goldoni opera nelle sue commedie in altri limiti, in altro sentimento, da grande autore realistico al tramonto di un’altra epoca, di un’altra civiltà. Qualche raro accenno esplicito, il resto tutto dentro, tutto nascosto nelle cose dette e fatte, nei brevi accenni, nelle necessità logico-poetiche del testo. Qualche esempio:

 

Inizio Rusteghi: due donne cuociono in una stanza. La giovane parla per prima: “Siora madre”. L’altra risponde: “Fia mia”. La giovane: “Deboto xè fenio carneval”. La più anziana: “Cossa diseu, che bei spassi che avemo abuo”.

 

 

Inizio Le massere: “Ste massere le dorme e le me fa subiar, vôi batter alla porta, vôi farle desmissiar”…

 “Col vento e con la brosa non gh’ho niente de gusto”. “Aspettè caro fio fin che m’impiro el busto”. “Ben levada”, “Oh che freddo che xe”. “Aveu impizzà el fogo?”. “No gnancora, disè…”

“…Non vedeu? L’alba che spunta fuora”. “O malignazonazzo! Perché vegniu a st’ora?” – “Me pareva caligo, vedendoghe pochetto. – Co xe cussì a bonora voggio tornar in letto…” etc.

 

Una delle ultime sere di Carnovale: “Puti, vegnì qua. Stassera ve dago festa. Semo in ti ultimi zorni de carnoval. Dago da cena ai mi amici: dopo cena se balerà quatro menueti, vu altri darè una man se bisogna: e po magnerè, goderè, ve divertirè…”

 

Infine Le baruffe: “Creature, cossa diseu de sto tempo – Che ordene xelo? Mi no so, varè. Oe, cugnà, che ordene xelo?”

“No ti senti che boccon de sirocco?”

“Xelo bon da vegnire de sottovento?” “Sì ben sì ben. Si i vien i nostri omeni, i gh’ha el vento in poppe”.

 

Goldoni pare mettere nelle prime parole il clima dell’intera commedia. Da ciò deriverebbe che le Baruffe sono tutte recitate nel clima di una giornata o di più giornate di scirocco. Sono affogate in un’atmosfera fisica piatta, calda, grigia, spessa. Un tempo disteso, che agisce sui nervi in due modi: provocando o la pigrizia o lo scatto. Due modi di depressione climatica che si rifrangono sul comportamento umano. Più oltre non abbiamo alcuna indicazione. Solo dell’ora nel terzo atto, verso sera o pomeriggio, poiché l’interrogatorio è avvenuto di mattina. Nient’altro o quasi. Tutto, il tutto che c’è, se c’è deve essere desunto dal testo, all’interno delle cadenze psicologico-poetiche e della logica delle azioni, nella loro cronologia temporale.

Variare le atmosfere fisiche e le ore intorno al tema unico della commedia non è un voler andare contro il testo, contro la sua semplicità? Un aggiungere qualcosa di più, per gusto o per moda o fame di “realtà”?

Pure anche il vecchio Ortolani12 scrive: “Corre nelle Baruffe ricche dei ricordi della giovinezza una folata di vento dell’Adriatico, si sente il salso odor del mare e nelle rozze e violente passioni dei cuori primitivi sembra fremere lo schiumeggiar dei marosi sulle dighe”.

C’è veramente nelle Baruffe questo soffiare del vento oppure no? O non è valida l’indicazione del grigio dello scirocco? La laguna a ottobre? Il sudore appiccicato alla fronte, il lavoro quotidiano nell’afa, nel caligo, etc…le passioni che scoppiano, le liti, in quest’aria ferma, indicata dall’inizio del testo?

Sono così allegre le Baruffe, come si vuol credere o il gioco è più duro, più crudele? I caratteri sono convenzionali o invece rappresentano un fatto nuovo nella convenzione, un elemento popolare che irrompe sul palcoscenico con il suo peso e trasforma il gioco, il minuetto, in un qualcosa di più violento, di meno compassato, di meno stilizzato e stilistico?

 

TEMPO 

 

Il tempo delle Baruffe a poco a poco si è rivelato un autunno più o meno inoltrato. Tutti i particolari lo confermano: lo scirocco, la qualità dei pesci pescati da Padron Toni, la “zucca barucca” calda, le provviste e i regali da Senigallia (tutto il lavoro alle soglie dell’inverno, i primi temporali).

Ma è così importante il tempo fisico, atmosferico, nelle Baruffe?

Credo che tutto il problema stia nel limite e nelle ragioni di questa ricerca. Nel significato che essa acquista nell’interpretazione generale del testo.

Se esso concorre a creare una realtà poetica del testo, se esso aiuta a scoprire la sua eternità nell’attimo, se esso aiuta a demistificare un modulo interpretativo usato, convenzionalizzato da secoli, se esso spinge lo spettatore a capire una “realtà” più umana, più profonda, dietro il gioco delle Baruffe e dei suoi personaggi, allora si tratta di un qualcosa che non può essere tralasciato.

 

 

 

E poiché sono convito che anche questo particolare atmosferico racchiuda in sé tutte queste possibilità, giustifico l’affannosa ricerca di alcuni dati, la vivisezione naturalistica di certi particolari del testo, come se Goldoni avesse coscientemente nascosto indicazioni precise, oggettive, nelle pieghe del suo testo. Ciò che alla fine mi sembra interessi non è tanto l’autunno, il mese o l’ora esatta, supposti per una storia, bensì la possibilità che il tempo filtri tra i telai di carta delle scene e soprattutto l’esclusione di certi tempi stagionali più placidi, più comodi. La possibilità che il tempo si turbi, che si muova intorno al flusso della vita.

Così dall’estasi immobile di una presunta estate si passa ai turbamenti dell’autunno. Così nelle Baruffe circola già un’aria di attesa dell’inverno.

Le mattine possono essere già soffuse di nebbia, che il sole fuga, e il vento porta pioggia e sole, come l’attimo nel tempo umano porta lacrime e sorriso. La variabilità della vicenda trova un contrappunto nella possibile variabilità della natura.

 

 

 

Penso che le Baruffe vivano in un giorno di tardo autunno, ancora caldo nel tepore ultimo del sole ma già con brividi di gelo, che preannunciano i fuochi dell’inverno. In una giornata mossa, ventosa ma incerta, in cui il vento e la stagione non riescono a trovare un punto di incontro ma si urtano, si baruffano, si placano e riprendono a contrastarsi fino a trovare per qualche attimo, verso la sera, una pacificazione, mentre già si allungano le ombre della notte.

È troppo facile tutto ciò, troppo costruito? Pure forse proprio nella sua elementarità, nella sua infantilità di rapporti con la vicenda umana è racchiusa un tipo di poetica popolare, semplice ma non semplicistica. Direi che l’analogia col tempo umano dovrebbe trovare il suo contorno non in una contemporaneità ma in un rapporto più naturale. Cioè le azioni del tempo e degli uomini si contrappongono, si anticipano a vicenda o si ritardano. Non sono in sintonia assoluta ma stanno in un rapporto segreto, la cui legge è misteriosa.

Unità di tempo delle Baruffe

Le baruffe si svolgono senza alcun dubbio consequenzialmente. Non c’è soluzione di continuità temporale tra atto e atto e persino tra scena e scena. Da una scena si passa alla successiva, che si svolge esattamente un tempo più tardi della precedente. Esempio tipico: il finale dell’atto primo.

Toffolo minaccia: “Li vôi querelare”. Inizio secondo atto: Toffolo entra dal cogitore: “Lustrissimo, […] i m’ha dito che i me vuol amazzare”, etc. Così anche per il secondo e il terzo. Così per ogni quadro. Goldoni arriva ad una perfezione nella costruzione, per me incredibile, proprio attraverso la cosa più semplice: raccontando la storia come una sequenza di fatti che egli non inverte o sovrappone ma segue nella sua logica naturale, uno dopo l’altro, con i relativi effetti e le relative conclusioni.

Una scena sbocca nell’altra e questa in quella successiva, come il tempo umano fluisce nel momento che segue, continuamente, senza sosta. Goldoni ad un certo punto ferma il movimento delle azioni, del tempo che passa, perché basta così, ma potrebbe benissimo lasciar fluire la storia dei suoi personaggi, far passare un’altra notte, far apparire un altro giorno, far piovere o far sole, luna, alba, riso, lacrime, grido, querimonia, atti d’amore e matrimoni, nascite e morti. Potrebbe insomma seguire il movimento dolcissimo e terribile, continuamente pieno di tanta “baruffa”, cioè di tanto affannarsi per poco, come se quel poco fosse tutto, il tutto vero della vita.

Perché la “vicenda” delle Baruffe non si conclude veramente, come non nasce nemmeno mai come “trama”, come “fatto interessante”, come concatenarsi di eventi straordinari o almeno che valga la pena di annotare: è un pezzo, piccolo o grande che sia, di realtà vitale, che quasi non si fa nemmeno mostra di essere poesia, tanto appare spoglio e poco dimostrativo di essere poetico.

Da qui la mancanza per esempio di finali di atti e quadri. La mancanza di aperture – meno la prima, che determina tutte le Baruffe: “Creature, cossa diseu de sto tempo?” (pazzo, variabile, straordinario, nuovo, diverso, uguale a sempre e nello stesso tempo diverso, sempre mutato e sempre se stesso, sempre pronto a diventare altro e poi ritornare come prima, ma mai uguale, etc.).

I cambi di quadri sono interruzioni brevi della storia, gli atti interruzioni talvolta più lunghe, ma si tratta di interruzioni sempre logiche, di passaggio del tempo necessario, applicate alla necessità tecnica del teatro, cioè alla divisione in atti.

In realtà non occorre un intervallo tra il primo e il secondo atto, come tra il secondo e il terzo, come non occorre altro che un respiro, una cesura, tra quadro e quadro. Soltanto che qui la cesura “deve” esserci. Deve, per lasciare il tempo ai personaggi di compiere l’azione presunta per disporsi nella scena successiva. Per esempio, Toffolo deve compiere il percorso dalla scena delle baruffe al palazzo del cogitore. Tale tragitto o lo si vede o lo si presume. Goldoni dà il tempo a Toffolo di compiere il suo percorso fisicamente e umanamente, cioè di pensarci un poco su magari, e ce lo fa ritrovare, dopo una pausa di silenzio, nella situazione immediatamente successiva, all’inizio del secondo atto.

Tutte le scene delle Baruffe ci appaiono calmamente legate in successione poetica logica e temporale, con una facilità straordinaria. Altro che gioco di costruzione sapiente, tipo odioso Ventaglio, dove tutto è montato come un orologio svizzero di precisione, perché l’ora scatti, e l’autore ci fa sapere quanto è abile il meccanismo che ha montato perché scatti all’ora giusta!

Qui il meccanismo non è montato a priori. È per caso questo, potrebbe però essere benissimo un altro, e con un altro motivo di lite, di incomprensione, un altro difetto di Padron Fortunato, un altro amore, altre cose di vita umana, i termini non muterebbero nella sostanza. La macchina non è montata dall’autore ma dalla ineluttabilità delle cose dell’uomo, che si muovono ora in un certo modo ora in un altro. L’autore non le riordina, le sceglie, ne sceglie alcune, non le più straordinarie, e ce le fa diventare assolutamente straordinarie per virtù di poesia. Perché le Baruffe riescano a far trapelare dal pianto e dal riso, dal futile e l’utile, dal giusto e l’ingiusto della vicenda, al di là dei caratteri, delle psicologie popolari, dei tratti di classe, dei rapporti – insomma al di là della propria storia individuale e della propria “storia” come tempo storico – anche una specie di eternità dell’avventura umana, una specie di trasalimento universale, è probabile che sia necessario recitarle senza dare corpo compiuto e concluso ad ogni atto, facendole invece vivere tutte d’un fiato, scandite da tempi diversi, colori diversi, umori diversi, con brevi sospensioni, come una specie di ripresa di respiro, come una certa inevitabilità della ripetizione dei gesti e delle parole, o con una certa variazione sul tema degli stessi gesti e delle stesse parole, senza timore di essere in fondo monotoni, non troppo straordinari, non troppo divertenti… Senza dare troppa importanza “drammatica” alle cose che avvengono, senza tentare di farle diventare come delle parti a sé, degli effetti a sé: lasciare che avvenga quello che deve e può avvenire, che il riso nasca dove e quando può nascere, e così le tenerezze, e così tutto. E che tutto passi alla fine come ombra dopo sole e sole dopo ombra e ombra ancora, per poi cominciare altrimenti l’indomani. Che la commedia umana si sospenda ad un tratto in una festa improvvisata e resti così a mezz’aria, senza vera soluzione, senza conclusione definitiva…e che il pubblico solo “dopo” rievochi l’affanno di questo piccolo mondo, così particolare, così chiuso nelle sue dimensioni psicologiche e storiche eppure forse così aperto alla grande avventura della vita. Le Baruffe dovrebbero produrre la sensazione di qualcosa di breve, senza trama, da non sapere bene raccontare se non a piccoli tratti, ad accenni – qualche particolarità, un momento, un tipo. Ma nello stesso tempo un qualcosa di vario, di umanamente mobile nella mobilità del tempo, di un giorno qualunque, in un paese, vero e lontano, presente e dimenticato. Un’eternità in un attimo.

SCENOGRAFIA

Giorni di pena per le scenografie delle Baruffe. Luciano con la barba lunga e gli occhi spiritati che schizza con i carboncini e cancella scene su scene. Meglio: idee di scene, abbozzi, tentativi di scene, così come vengono da un nostro discorso. Io parlo, leggo brani di appunti fatti sulle Baruffe e lui segue le parole con i segni. Come una misteriosa stenografia teatrale. Ma ci siamo arenati. Dopo Chioggia, pieni di tante immagini, abbiamo infilato una strada cieca, probabilmente. Ma io penso che tutto rifluirà decantato però dall’immediatezza, dal dato di fatto per il dato di fatto.

Cogliere l’essenziale, il luogo, il vuoto o lo spazio in cui si muove idealmente un mondo come quello delle Baruffe. Ovviamente non un “luogo” reale ma un luogo plausibile, ricco di verità e di poesia, utile per recitare, comprensibile e bello per chi lo vede.

Si tratta, come sempre, di decantare a poco a poco il reale, il naturalistico, dalle scorie della retorica, del vissuto per il vissuto, per isolarlo nella luce incandescente della ribalta – les yeux de la rampe di Molière! – in una specie di eternità, ma senza imbalsamarlo, senza renderlo conchiglia vuota, guscio di madreperla, calcificazione della vita in un simbolo, in una pittura, per quanto sapiente possa essere, e senza nemmeno cadere nel gusto dell’oggetto per l’oggetto, della cosa che si tocca – legno o pietra o altro – come se questa potesse racchiudere magicamente la poesia, che è sempre lavoro di scelta, modellazione, mutamento del dato di fatto da parte del poeta. Nessuna cosa reale, così com’è, è poesia. La poesia sarà sempre dopo. O prima. Memoria o preveggenza, quel che volete.

 

Respiro delle Baruffe, ritmo scenico, in rapporto ai luoghi, alla scenografia, agli oggetti. Sono sempre due elementi che si alternano; uno aperto e uno chiuso, uno popolare e uno borghese, uno povero e uno ricco, uno vivo – movimento umano di gente che va e viene, ama ride, baruffa, lavora, dorme, mangia e respira –, e l’altro esangue, quasi spento, un qualcosa di antico in declino, soffuso – un vecchio che si aggira tra carte antiche e un ragazzo che aspetta in una grande poltrona di cuoio nero, davanti d un lunghissimo tavolo vuoto. La gente talvolta viene, un poco impaurita, chiede giustizia o viene interrogata – sempre una persona alla volta – e si allontana appena può.

Ed ecco le prime equivalenze: povero, vivo, aperto, per popolare; chiuso, ricco, decadente, esangue per aristocratico-borghese. Così una scena popolare, piena di luce e di aria, di gente viva, viene ad ogni quadro cancellata dalla penombra di una grande tela che scende dall’alto e che trema nel momento in cui tocca il suolo, per assestarsi subito in una sua dimensione di stanza, di interno, di luogo chiuso.

 

 

 

Colore delle Baruffe. Colore visivo e colore fonico. Qual è il tono? Il folclore del costume. Il costume popolare. I pescatori e le loro donne: nella realtà storica, colori rossi, verdi, bianchi, etc.; le calze sguarde, lo zendale, etc.; il tombolo. Tutto ciò deve essere visto, nel rispetto storico, con occhio nuovo.

È possibile pensare ad una “musica” assai rilevata, quasi sgradevole in certi punti? Cioè ad un accordo tonale più aspro?

È legittimo, per togliere la “retorica” del goldonismo, etc.?

 

 

 

Un vuoto d’aria, di vento o caligine, inverno o estate, tenue azzurro diffuso. Nel fondo una linea di vecchie case. Lunghi ed antichi squeri, spalancati sulla riva: colore dei secoli – la barca che nasce, la barca morta, affondata nell’acqua immaginaria. Una linea di vita e morte degli oggetti del lavoro sul mare, ininterrotta e sempre rinnovata.

La calma dell’aria sulla vicenda delle cose, che seguono anch’esse il ritmo dell’uomo. Il ritmo dei giorni, delle stagioni.

Dunque nel fondo il ritmo delle stagioni o del tempo, più avanti il ritmo delle cose del mare, le cose degli uomini della nostra poesia teatrale, più avanti ancora, alla riva, una grande tartana, disarmata, grigia, nera, lavata da mille piogge e mille soli: come un punto di passaggio tra l’immobile del fondo e il mobile di ciò che formerà il primo piano della nostra scena. L’oggetto è in disuso, ma ancora solido. I bambini giocano tra riva e coperta e sottocoperta, luoghi di meravigliose avventure. I vecchi seduti hanno il colore del legno e guardano accanto.

E poi, ancora più avanti, due lembi di case che si nascondono alla vista di noi spettatori e di cui noi sentiamo un profilo, una linea di muro o camino, a riportarci il tepore di una famiglia, il ricordo di una stanza – il letto e fogu dei pescatori –. Un tratto da una parte, l’altro dalla parte opposta e tra i due un segno lungo che li unisce, in alto. È un breve palpitare di lembi bianchi di tela limpida e liscia nel sole. La terra: un rincorrersi di lunghe tavole di legno, scure e chiare, qua e là interrotte da una calafatura, non sai se teatro o nave; e sul legno il disegno netto, il profilo di una casa, stagliato dal sole, che a poco a poco si muove, si rimpicciolisce, mentre il profilo della casa opposta si allunga, sempre più a segnare il cammino del sole da un’ora all’altra. Più avanti ancora una riga di ombra fonda, come il segno immaginario di un portico scuro. Più avanti ancora un’altra riga di luce, che taglia l’avanscena in tutta la sua ampiezza. Un gruppo di sedie, poche, a destra, accanto e quasi attorno al lembo di casa, e un altro sul lato opposto. Le donne, sedute intente al lavoro. Le vecchie, immobili, con gesti d’eternità. Le madri pesanti di corpo e rapide di mano, teste reclinate sul lavoro. Le giovani, mani leggere, teste levate, occhi vivi e attenti e una canzone a mezza bocca, da un lato e dall’altro della scena. Parole che si gettano all’aria. Un gomitolo che rotola verso la ribalta. La corsa di una ragazza per afferrarlo prima che cada giù. La figura di un’altra creatura, rilevata di colore nel fondo, presso la barca antica e immobile, con le gonne fasciate di vento. E un piccolo breve turbine di sabbia e fili nel vento, che di colpo anima il cielo e cose e gente, mentre la prima parola, dal fondo, dal rosso forse dell’abito, dal bianco chiaro del volto, arriva come un richiamo: “Creature, cossa diseu de sto tempo?”

 

 

 

La scena della cancelleria è invece vastissima. Ciò che prima è occupato dalla piazza e dalle case popolari ora è occupato da una sola stanza. Ma è piuttosto uno spazio, non è fastosa. È diversa, con accenni di ricchezza. È uno stanzone lungo e largo, con un soffitto basso e grandi travi. Un pavimento di cotto a larghi quadrati o rettangoli, un poco smangiato. I muri di colore tenue, a calce, invecchiati ma “nobili” di tono. I toni dell’intonaco sono morbidi, pastelli azzurro o ocra pallido, il tutto sbiadito, lontano, come una memoria. Si sente grattare la penna del Comandador quando scrive sulla carta. Nella dolcezza tonale c’è qualcosa che si spegne, senza speranza, anche se ancora si attarda sulla scena e quando, al lume delle candele – poche, una o due verso sera, per non spendere troppo – sbattendo una porta, farà tremare leggermente tutte queste pareti, come ad un soffio d’aria, quando la scena avrà un brivido di freddo, nell’ombra e penombra, dovremmo forse percepire la dolce precarietà di tutto un mondo e intuire l’annuncio della sua prossima fine.

Sulla parete di fondo, due o tre larghe finestre ma basse. Quasi come rettangoli astratti. Al di là si intravede il blu. A destra e a sinistra una porta principale, un poco importante, ufficiale, e una porta piccola. Un tavolo lungo e un tempo ricco. Ora zoppica, ma ha tracce di lacca sbiadita e oro scrostato, una gamba zoppica ed è assestata con qualche manoscritto, qualche pratica piegata in quattro; un seggiolone importante, di cuoio nero, funebre e solenne come il felse delle gondole, con un po’ di peluche nero intorno ai cuscini. In un angolo forse un altro tavolino per il cancelliere. E ai muri pile di pratiche burocratiche, legate con un nastro rosso, mai archiviate. (Gli archivi italiani: parole e parole rilegate e abbandonate in stanze polverose per secoli). Un’altra sedia, quasi popolare, per la “gente” che viene. Verso la ribalta potrebbero esserci una o due valige e dei bauletti – poca roba –, una sedia con una giacca e le scarpe vuote sotto. Il Coadiutore sta partendo, prepara i bagagli. Cambia luogo, se ne va. Questa è l’ultima “missione”, è l’ultimo gesto di “simpatia” e di “autorità”, che vuole portare a buon fine prima di lasciare Chiozza. Ma ha anche un po’ di fretta. È stufo della sua esperienza, va verso altre avventure umane (vedi Memorie di Goldoni). Le circostanze ritardano la partenza (le partenze goldoniane!).

Nel mezzo della festa popolare del finale, il Coadiutore sparirà, verrà inghiottito, il ballo lo cancellerà.

Dietro il ballo si potrebbe forse, in alto, sulle spalle di un commandatore o di un facchino della cancelleria, veder passare le valige scure del Coadiutore che se ne va; attraversare la scena mentre le coppie immemori danzano, ridono, mangiano e parlano al pubblico, accomiatandosi…

COSTUMI

Il costume deve dare una dimensione storica ai personaggi e nello stesso tempo far sentire la loro realtà permanente.

Costume di teatro = finzione e nello stesso tempo possibile verità.

La verità delle cose diventa espressiva e poetica e stile di un tempo lontano da noi eppure ancora nostro.

Riuscire a stabilire per un pubblico di oggi tutti questi rapporti e nello stesso tempo comporre il quadro plastico in modo “artistico”, piacevole, bello ma non decorativo. Il timore del decorativo è pari al timore dell’eccesso di “realtà”. Necessità di trovare l’equilibrio tra i due punti.

 

 

 

Tentare di dire tutto con un costume è sempre dannoso.

È l’insieme delle parole, gesti, colori, costumi ecc. ecc. che fanno un tutto.

Ricordarlo.

Fino a che punto il “carattere” dei personaggi deve essere identificato dal costume?

Mia estrema diffidenza verso i costumi che fanno il personaggio.

Pure l’essere umano, il personaggio, ha una sua dimensione fisica, un suo viso, una sua voce.

Il costume individuale deve avere qualcosa di comune e qualcosa di unico, di personalissimo.

Il problema è sempre di individuare questo qualcosa di unico, senza che diventi un simbolo, un frego con la matita rossa e senza soprattutto che esso appartenga alla facilità delle tipologie teatrali. L’importante è che carattere di classe e carattere individuale abbiano l’aspetto della realtà, cioè di qualcosa di non codificato, di non valido per tutti allo stesso modo: non tutti i grassi sono placidi, non tutti i pescatori sono rudi, non tutti i popolani sono buoni, tutti i borghesi cattivi, tutti gli innamorati belli e piacevoli e via dicendo. Nello stesso tempo occorre ricordare che il teatro è un luogo di verità convenzionale.

 

 

 

Ovviamente i personaggi “borghesi” debbono fatalmente apparirci più distaccati, diversi, senza essere totalmente appartenenti ad una mitologia.

Il proletariato ha mantenuto quasi immutate alcune costanti – abitudini, gesti, metodi di lavoro, condizioni quotidiane del vivere, attitudini generiche e no. È necessario che, accanto alla sensazione plastica, visiva, che il tempo si muove, che tutto muta, resti anche il concetto reale che molte cose si muovono troppo poco o non si sono mosse affatto.

 

 

 

Anche in queste Baruffe, commedia popolare, “giocosa”, del 1762, di Carlo Goldoni, il problema si pone con uguale chiarezza.

Questi pescatori goldoniani quanto sono goldoniani, settecenteschi e quanto sono ancora pescatori di oggi, quanto rispecchiano una realtà direi nazionale?

Il costume, oltre al gesto, al tono, al modo di essere, ha una funzione fondamentale per chiarire tutto ciò.

Pescatori – uomini e donne, popolo antico e moderno. Il cesto, l’oggetto del lavoro, la rete, la fatica, il gesto, il passo, sono immutati, anche se dalle case si alzano le antenne della televisione o un altoparlante urla lo strazio di una canzonetta!

Certi rapporti, certe condizioni – l’alienazione del lavoro (parlo della vera alienazione, non delle solitudini dell’intellettuale di estrazione borghese o piccolo borghese) – sono quasi gli stessi oggi.

Ecco perché penso che l’arrivo degli uomini dal mare, dal lavoro, dovrà essere molto più vicino ai nostri giorni rispetto all’attesa delle donne sull’uscio di casa (anche questo gesto antico, di sempre).

Ecco perché gli uomini al lavoro dovranno apparirci assai più uomini di sempre al lavoro.

Ed ecco perché mano a mano che essi si spoglieranno della loro veste di uomini al lavoro, potranno sottolineare le differenze profonde di costume, di modo, di atteggiamento plastico che li dividono dai pescatori-popolo di oggi.

 

 

 

Direi che si può tracciare così una scala schematica di variazioni del costume. Dal più “storico” al più contemporaneo.

1 – L’aristocratico (nelle Baruffe non c’è), storicissimo – un “marziano”.

2 – Il gran borghese: un grado di meno.

3 – Il piccolo borghese/l’intellettuale piccolo borghese/il funzionario (cogitore, Comandador) già fissato in una “moda” allontanata nel tempo ma purtuttavia già con un legame, in qualche particolare, con l’oggi.

4 – Il piccolo proprietario/commerciante, etc., proletario (i bazariotti, i mercanti col ‘barretton de veludo’) e, con alcune varianti in meno, Padron Vincenzo.

5 – Il popolano (pescatore etc., uomini e donne) padrone di tartana (famiglia di Toni).

6 – Il popolano non padrone di tartana (famiglia Fortunato – Titta Nane).

7 – Il popolano povero, senza mestiere, cioè senza lavoro di pesca (il venditore di zucca barucca).

Costui a rigor di logica potrebbe essere un “contadino” (del retroterra di Chioggia, degli orti famosi di Sottomarina, etc.).

 

 

 

Altre particolarità: quello delle donne che aspettano i mariti è appena appena più “costume” di quello degli uomini che arrivano dal mare. Poi gli uomini si spogliano degli attributi del lavoro, escono dal guscio del lavoro e si allontano un poco nel tempo, si unificano – nella dimensione storica – con le donne.

 

 

 

Se le donne e gli uomini si mettono a festa, come penso debba succedere quando vanno al palazzo di giustizia, acquistano un aspetto più storico, sempre minore del “costume” del piccolo borghese che li interroga a simbolo del potere aristocratico ormai demandato sempre più alla classe dominata e dominante (la borghesia) ma purtuttavia assai più storico del costume del lavoro o dell’attesa.

L’abito a festa dei personaggi popolari è il punto massimo di “storicità”, di decorativismo, di piacere del colore, nei costumi del popolo.

Il costume del piccolo borghese, in privato (cogitore all’inizio del secondo atto, se si farà il gioco introduttivo del cogitore che detta un dramma al Comandador o che se lo detta da solo) rappresenta, in maniche di camicia, in gilet, senza parrucca, il punto minimo di storicità per questo tipo di personaggio.

Il costume dei bazariotti è invece il punto massimo di imborghesimento delle figure popolari: Padron Vincenzo, che noi consideriamo un pescatore colpito anni prima da una disgrazia in mare e che è diventato uomo di terra e si è tramutato in un pescatore che commercia il pesce, lo vogliamo vedere forse senza un braccio.

Il suo non è un salto di classe, né un tradimento di classe. È una necessità di vita, che i pescatori intorno a lui capiscono e accettano. Per loro Vincenzo è un po’ un sindaco segreto, il consigliere, quello che sa leggere e scrivere, quello che compra il pesce per rivenderlo (quindi mercante, quindi tendenzialmente bazariotto) ma con altro spirito, direi altri prezzi. Purtuttavia il suo abito già tende al “baretton de veludo”, per necessità di lavoro e anche per fatale mutazione di stato. Probabilmente Vincenzo è il più ricco, o perlomeno il diversamente abbiente. Si tratta sempre di differenze relative, appena percettibili, ma chiare.

Così la differenza tra i padroni di tartana e gli altri esiste, ma è di particolari minuti, qualche attitudine, qualche gesto, un oggetto. Per esempio, quando tornano le tartane, le donne di Padron Toni ricevono un regalo comprato a Senigallia. Le donne di Padron Fortunato non lo ricevono, non lo chiedono neanche. È Fortunato che chiede del tabacco perché ha perduto la scatola in mare

PERSONAGGI

Una distribuzione non dovrebbe mai essere fatta per ogni singolo personaggio bensì sempre per tutti i personaggi-attori insieme. I caratteri, i personaggi, i tipi, nel teatro non sono mai “indipendenti”. Esistono sempre in rapporto agli altri. Una distribuzione esatta è una questione di esatti rapporti tra i vari personaggi, più che una distribuzione esatta di ogni singolo personaggio.

 

 

 

I soprannomi: ecco un tipico procedimento del realista Goldoni. Egli non fornisce nessuna spiegazione sui caratteri e sui tipi dei personaggi. Tutto è racchiuso nel testo e nei rapporti tra i personaggi. Solo qua e là qualche accenno diretto: un’età, un soprannome buttato là.

I soprannomi dei personaggi delle Baruffe sono dunque una “indicazione” valida per l’interpretazione dei caratteri? E se sì, fino a che punto?

 

 

 

Toffolo Marmottina – l’immagine popolare corrisponde a quel tanto di subdolo un po’ femmineo, sornione, che ha il personaggio. Forse ne indica anche la pigrizia o l’andare in letargo, a tratti, o lo svagarsi, o il dormire troppo. Ci sono molte possibilità, affidandosi al nome, di approfondire con qualche tocco un carattere umano. Il problema è quello di non sovraccaricare un personaggio di troppa storia personale, di troppa “osservazione umana” e nello stesso tempo di non schematizzarlo, non semplicizzarlo in categoria storica, sociale, o in superficialità del tratto, di una caratteristica.

 

 

 

Così per Lucietta, il soprannome Panchiana, “conta frottole”, “conta balle”, indica un che di ambiguo del personaggio, una mancanza di franchezza in genere, o forse meglio una tendenza all’amoreggiare, al farsi corteggiare, a “spezzare i cuori”. Infatti il carattere di Lucietta non è falso, almeno nei rapporti sentimentali con Titta Nane, anzi piuttosto fiero, di poche parole…È certo la più femminile delle tre ragazze. Basta ciò per chiamarla Panchiana? C’è un accenno ad una storia d’amore passata piuttosto enigmatica. Oppure è soltanto un pettegolezzo? Comunque è Lucietta che provoca Marmottina, è lei la più “disinvolta”, quella che sa stare di più al gioco amoroso.

Perché Pasqua Fersora? Perché Libera Gallozzo?, quando ad esempio il carattere di Libera è meno violento, meno esplosivo di quello di Pasqua?

Queste prime osservazioni sui soprannomi ci porterebbero a pensare che essi non siano una misura per costruire i caratteri. Che i caratteri siano autonomi rispetto ai soprannomi, che questi ultimi corrispondano solo talvolta in qualche tratto secondario, tal altra con maggiore aderenza immediata, tal altra come memoria di un gesto o attitudine del passato per noi irrintracciabile.

Il testo può avere un agguato nella semplicizzazione del problema – a tal soprannome, tal “gesto” fondamentale. Pure un nesso forse più evidente deve esistere. È un problema aperto che probabilmente non si chiuderà mai del tutto.

FAMIGLIE-COPPIE-CARATTERI

famiglie – rapporti – caratteri base.

 

Il popolo

Famiglia a):            Padron Toni

                        Donna Pasqua, moglie di Toni

                        Lucietta, sorella di Toni

                        Beppe, fratello di Toni

È la famiglia più ricca – relativamente. Toni è padrone di tartana. Età (visiva): 50 anni Toni, 45 Pasqua, 22 Lucietta, 28 Beppe.

La famiglia è quella che noi chiamiamo “degli alti”. Il meno alto è Beppe.

 

 Famiglia b):            Padron Fortunato

 

                        Donna Libera, moglie di Fortunato

 

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